Dopo aver annunciato il suo ritiro a fine 2016, Steve Peat torna a far parlare di sé in una video intervista in cui si mette a nudo, per raccontarsi, raccontare, ma anche per parlare a cuore aperto di downhill e sparare a zero sull’enduro.

Il verdetto è, a dir poco, lapidario: “L’enduro non è uno sport professionistico“. Un video ricco di interessanti spunti di riflessione sulla mtb e lo sport.

foto di un primo piano di Steve Peat

Sotto quel sorriso da vecchia volpe…

Tutto parte da un’iniziativa del collega francese Cédric Tassan che ha avuto l’occasione imperdibile di incontrare Steve Peat nel suo quartier generale, nella campagna presso Manchester in Inghilterra. Cédric è collaboratore presso Édition  VTOPO, media ed editore seguitissimo in Francia (dove risiedo e lavoro attualmente) da tutti i praticanti di cicloturismo, corsa, mtb, ecc.

Un momento speciale trascorso col pluricampione e leggenda del downhill in una dimensione familiare, quotidiana. Tra pedalate sui trail vicino a casa, allenamenti, evoluzioni in moto, per finire con una cena all’inglese in un pub locale, Cédric ha raccolto il meglio del “Peaty-pensiero”. Vi ricordiamo che Peat ha da poco annunciato il suo ritiro dalle gare in un video dal titolo “Cheers”.

Ecco l’intervista:

E non è poco! Ce n’è abbastanza per infiammare i social e far fare all’intervista il giro del mondo, con tanto di commenti pro e contro.

Cerchiamo di riassumere e commentarne i passaggi salienti:

1. Peaty e l’enduro: “Per me l’enduro è uno sport strano (a weird one). Non penso che sia un buon sport professionistico. Penso che ci sia molta scorrettezza, con i rider che trascorrono molte settimane sui trail destinati alle gare per provare. Per me l’enduro è divertimento. Se devo girare un weekend con gli amici l’enduro è perfetto. Ma se devo gareggiare, l’enduro non è proprio la mia formula preferita“.

Una dichiarazione forte, da alcuni commentata come una critica a una disciplina nella quale Peat “non eccelle, a cui non piace, e nella quale nessun rider del team Syndicate è mai riuscito ad avere risultati decenti”.

Detto questo, è pur vero però che il fatto di poter provare alcuni circuiti per lungo tempo prima delle gare ufficiali (e delle relative prove cronometrate) abbia talvolta avvantaggiato alcuni rider, a tutto discapito del principio di equità tra i concorrenti, che non sempre godono delle stesse disponibilità di tempo e denaro.

Una considerazione fatta non soltanto da Steve Peat ma anche da altri top rider (anche italiani) e sulla quale gli organizzatori dei vari campionati mondiali, europei e nazionali dovranno necessariamente riflettere; anche qui in terre nostrane, con il ritorno del Superenduro nel 2016.

Non a caso, il nostro articolo sull’organizzazione delle gare italiane “Enduro, cosa succede in Italia?” è stato uno dei più letti e discussi dello scorso anno.

2. Peaty e il downhill: Non credo che l’UCI (Unione Ciclistica Internazionale, N.d.r.) stia sostenendo il downhill al meglio delle sue possibilità. Eppure è una grande Federazione, presente ormai da moltissimi anni soprattutto nel mondo della bici da corsa. Preferisce concentrare le sue energia nelle discipline olimpiche, i cosiddetti ‘buoni’ sport”.

Non è una novità che il gravity sia visto dalle organizzazioni internazionali come una disciplina troppo estrema, pericolosa e quindi in un certo qual modo, ‘cattiva’. Fatto salvo per il mondiale e la coppa del mondo – e per il circuito City Downhill, che resta però una nicchia nella nicchia, soprattutto in Europa – senza un maggiore sostegno e una più convinta promozione da parte degli organi ufficiali, il downhill continuerà ad essere una disciplina in affanno, sempre più schiacciata dall’enduro, a tutto detrimento delle nuove generazioni di piloti giovani e capaci.

Una situazione che quest’anno in Italia si è sentita, eccome: leggetevi ad esempio questo recente articolo del nostro Davide Allegri.

3. Peaty e la sua carriera: “Ho un sacco di ricordi indelebili della mia carriera in mtb, ma ho anche trascorso bei momenti recentemente. Penso che si possa vivere nel passato e dirsi che era meglio prima, quando si era giovani, ma alla fine la gente ha solo bisogno di vivere nel presente, guardando dritto verso il futuro“.

“Quando e se smetterò di competere, continuerò a impegnarmi nel mondo della bici, della mountain bike, accompagnerò i miei figli alle gare, aiuterò gli altri team nell’ambito delle competizioni e specialmente il mio team SPS (Steve Peat Syndicate, N.d.r.), sperando di poter portare i giovani alla coppa del mondo, trasmettendo tutto ciò che ho appreso in tutti questi anni; continuerò a lavorare con il marchio Santa Cruz; in definitiva, continuerò a fare tutto ciò che faccio anche oggi, ma senza gareggiare“.

Guardare avanti, essere consapevoli dei propri limiti, non mollare mai: Peaty ci ripropone queste tre regole fondamentali per ogni rider, alla luce della sua enorme esperienza e di una formidabile carriera che gli auguriamo possa essere ancora lunga e piena di soddisfazioni.

Salto si Steve Peat su un sentiero

L’enduro non sarà uno sport professionistico … ma Peaty ci sa fare, eccome!

A noi non resta che cercare di seguire il suo esempio, sui sentieri e nella vita!

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A proposito dell'autore

Metà Indiana Jones, metà biker: Egittologo e Archeologo, Matteo nutre parallelamente una morbosa passione per mezzi a due ruote, come Ducatista e incallito praticante della MTB a 360 gradi, dall’XC al Gravity.