Un viaggio in Terra Santa tra mountain bike e sogno bicilive.it 6 Agosto 2019 News La chiamano Terra Promessa, e la ragione è biblica. Ma vi assicuro che Israele e Giordania sono pure la terra dei vostri sogni: è anche un luogo in cui si possono trovare alcuni dei migliori percorsi per mountain bike, singletrack infiniti insieme ad incredibili siti storici e paesaggi mozzafiato. È certo che Israele e la Giordania non saranno solo un viaggio in bici fantastico per gli itinerari, per i sentieri spettacolari, e non solo ci si sentirà appagati per le pedalate tra le città antiche, il deserto, sulle pietre di crateri millenari, sulle sponde del Mar Morto, ma vi ritroverete anche spiritualmente sollevati. Sì, il deserto del Negev e della Giudea in Israele sono un paradiso per gli amanti della mountain bike. La Riserva di Wadi Rum e il sito di Petra sono di una bellezza inenarrabile, ma tutto, qui, vi lascerà spiazzati: nulla è come avete sempre immaginato, ma come avete invece sognato. Questo che Coast2Coast vi propone è un viaggio che parte da nord, dal Mount Hermon con il suo Sugar Trail fino alla città di Eilat, nel sud, sul Mar Rosso. E per chi non è contento, da Eilat si attraverserà il confine per andare in Giordania dove si passeranno tre giorni per visitare prima la riserva di Wadi Rum, poi risalire in bici il monte sacro Aaron, e per ultimo la visita immancabile della splendida città di Petra. Il sopralluogo in una terra di contraddizioni Ma il posto dove vi portiamo dobbiamo prima conoscerlo bene, così come sempre andiamo a fare un sopralluogo con largo anticipo: location, attrezzatura, check degli itinerari, collaborazioni sul posto, hotel, camps… Tutto deve essere negli standard Coast2Coast e rispettarne la mission: Enjoy and Ride! Il mio motto è sempre quello quando viaggio: “Il miglior modo per conoscere un territorio è introitarne il suo cibo o, ancor meglio, mangiare il territorio” (Italo Calvino, Sotto il sole giaguaro). Ed ho sempre fatto così, in tutti i miei viaggi, ad iniziare dai parenti in Piemonte, che mi costringevano a mangiare il gorgonzola (sono siciliano), e da adolescente la Svizzera, dove necessariamente campavo a tavolette di cioccolato fondente, al latte e nocciolato; e l’Inghilterra coi funghi crudi e il montone e Kentucky Fried Chicken! E poi l’Africa, coi suoi cibi speziati. E ora il Medio Oriente. Israele. Giordania. Mi preparo quindi non solo per un semplice viaggio di esplorazione, ma come sempre per scavare in quel territorio in cui porteremo poi i biker in tour. E so pure che questa volta la frase di Calvino non sarà sufficiente a capire questo paese: troppi pregiudizi, troppa la storia, tanta parzialità, innumerevoli errori. Cosi mi viene in mente un’altra frase, non meno nobile il suo autore, Alexander Boschwitz. La frase che pronunciò Otto Silberlmann ne Il viaggiatore quando dice: “in un nuovo paese devi entrare in punta di piedi”. Sto per mettere piede in un paese dove so che tutto sarà proprio come io non l’ho immaginato, è questo che mi affascina di questi posti così pieni di contraddizioni: alimentano la mia curiosità, la mia voglia di conoscere. Ryanair da Bergamo, comodissimo, e dopo quattro ore atterro a Tel Aviv. Sono un po’ preoccupato per la mia attrezzatura fotografica: volo con un trolley in stiva e uno zaino appresso dove tengo camere e obiettivi, l’ultima volta che sono stato in Marocco mi hanno fatto il terzo grado. E a tranquillizzarmi pure il mio amico, esperto di Medio Oriente, che prima di partire mi scrive: “Vorranno sapere che fai di preciso e non te la caverai dicendo che fai cose e vedi gente”. Nulla, nulla di tutto questo, solo dei controlli effettuati in maniera ineccepibile: precisi, normali e cordiali. Incontro il mio amico Danny e con la sua utilitaria ibrida andiamo a Gerusalemme. Inizia a raccontarmi un po’ il paesaggio che incontriamo strada facendo, un misto di deserto e poi pini mediterranei, si inizia a salire, la Città Santa si trova a 754 metri slm; i cantieri sempre aperti in questa città, l’università, i quartieri arabi, il centro. Ceniamo in una localino sulla Jaffa road: hummus, falafel, shwarma e shakshouka con varie salsine, yougurt e schug yemenita. Offre lui. È sera, domenica, non posso non farmi un giro nel mercato, mi sgancio da Danny e vado in hotel a prendere la macchina fotografica, cambio 100 euro in shekel (1 ₪ ILS equivalgono a circa 0,25€) e mi tuffo nella vita notturna di Gerusalemme. Spettacolare, il primo impatto è pazzesco: tra i banconi di frutta, verdura, pane, alimenti vari, un numero incredibile di locali, pub, bar, che fanno a gara con note un po’ mediorientali, un po’ occidentali, musica che si mescola, culture che si intrecciano, piacevole. E pieno, pieno di ragazzi arabi, ebrei, e giapponesi, cinesi, americani e gente da tutto il mondo che beve e si diverte e le saracinesche chiuse dei negozi tutte dipinte con murales che raffigurano politici, attori, cantanti, e gli ebrei ortodossi coi loro cappelli neri e le trecce e la barba lunga che passano lì in mezzo coi loro sacchetti di plastica pieni di roba in una mano e la Tora nell’altra. Un melting pot incredibile che non posso non gustarmi bevendo una birra Shapiro, la birra del posto. E mentre sono seduto lì, affascinato da questo giovane mondo dal gusto dolcemente flower power, parte Soldi di Mahmood. Ed è la danza dei dreadlocks e dei sandali e dei colori che riempie la strada. Gerusalemme antica Sveglia presto, voglio visitare Gerusalemme antica, all’una si parte per il deserto per poi affrontare lo Sugar Trail. Prendo il metrò di superficie che taglia tutta la città: 4,50 shekel, cinque fermate e mi trovo davanti la porta di Jaffa. Il Muro del pianto. E il Muro è stracolmo di gente, ebrei credenti, praticanti e ortodossi e turisti e curiosi. Canti, tanta gente, bambini, ragazzi, mi ritrovo al centro di una delle loro più importanti cerimonie: la Bar mitzvah, corrisponde alla cattolica Prima comunione, la fanno tutti i ragazzini di 13 anni. E trovarmi lì tra loro è spiazzante, mi sento in un’altra dimensione, una dimensione lontana dalla mia cultura, lontanissima, ma così toccante da lasciarmi il segno. Scatto a ripetizione, senza fermarmi, tutto mi sembra così eccezionale che non posso lasciarmi scappare nulla: il bambino col suo papà con la faccia al muro, il rabbino, il ragazzo che per la prima volta può recitare alcuni passi della Tora. Passo più di un’ora immerso tra le loro preghiere, i loro pianti, e i loro canti senza nemmeno accorgermene, totalmente assorto e rapito da questa atmosfera rituale. Di corsa ripercorro il mercato della città antica, qui è molto diverso dai paesi arabi, dove tutti ti chiamano per venderti qualcosa, dove fai amicizia con tutti, dove insistono per offrirti un tè, un dolce, per attirarti dentro al loro negozio, no, qui nessuno ti chiede nulla. Si parte per il deserto Danny mi aspetta al Hummus and Falafel, pranzo veloce con le specialità della casa, appunto, e un ottimo drink chiamato lemonana, un mix rinfrescante di limonata ghiacciata e foglie di menta schiacciate, e partiamo. Siamo diretti nel deserto della Giudea, andiamo verso la periferia sud-est di Gerusalemme, diversi inurbamenti di comunità arabe, arabi israeliani o arabi che hanno un permesso di lavoro in questa terra. Prima di imboccare il tunnel che ci porta fuori da Gerusalemme, sulla destra c’è un belvedere che mette in bella mostra la cupola dorata della moschea al-Aqsa, lì, nella parte est, quella della Spianata delle moschee, quella oggetto di infinite e irrisolvibili dispute. E il tunnel è una lunga discesa, si inizia a perdere quota rapidamente, si va verso il deserto, verso il Mar Morto. Il deserto appare nel suo splendore accecante non appena usciamo dall’oscuro ventre della montagna: tutto bianco, bianco che risplende, bianco che rifrange, un diamante grezzo. Usciamo sempre più e andiamo ad est, verso Jericho, città della Palestina. Ci lasciamo alle spalle la Città Santa e tanti villaggi abbandonati, insediamenti di israeliani, lasciati dopo gli accordi di Oslo ai palestinesi, ma rifiutati ed ora solo dei paesi fantasma. Entriamo in un villaggio, tutto circondato da muro e filo spinato, sorvegliato a vista dai militari: dentro ci abitano, ci vivono famiglie di israeliani. Dei bambini giocano, altri girano in bicicletta, qualcuno torna dalla scuola con lo zaino in spalla, non si vedono adulti. Arriviamo in un piazzale in alto, lì ci aspetta Maor, la mia guida in bici, due belle full con il tubo sella telescopico ci aspettano, ma prima mi vuole mostrare il nostro percorso, “vieni” mi fa, “ti faccio vedere cosa faremo oggi e cosa non potremo mai fare”, e si apre davanti a me una distesa bianca immensa di saliscendi a perdita d’occhio, una specie di meringata infinita che si estende a sud e ad ovest, lì, ad est Jericho ci osserva. Mi chiede “allora, qual è la più grande rete di itinerari offroad consecutivi che avete in Europa?”, che io ricordi la più grande forse è quella del Salzkammergut, in Austria, se non sbaglio intorno ai 300 chilometri, “bene”, continua lui, “qui ci sono più di 400 chilometri di singletrack, solo in questa area” . Vabbè, andiamo! Ecco, allora immaginatevi una pump track immensa, dove vai col flow su un singletrack infinito e poi magari ci metti in mezzo se vuoi dei passaggi tra le pietre e qualche salto, e con un panorama pazzesco, e poi canyon tra muri bianchi, in una situazione che ti… esatto, proprio quello, ti rapisce: euforia, vai fuori di testa, divertimento e bellezza in quantità spropositate! La prima parte è rocciosa, scorci con singletrack a mezzacosta a strapiombo che sembra di stare sulle Alpi ma poi alzi lo sguardo e la distesa accecante del bianco candido ti riporta in quella dimensione eterea, da sogno. E anche il sole contribuisce a mantenere questa atmosfera: ci saranno all’incirca 32 gradi, i raggi scendono giù perpendicolari e la pietra calcarea farinosa di questa sezione rifrange ricordi di miti e leggende offuscando la vista e la mente. Seguo la mia guida, lui, esperto del posto, corre tra le decine di singletrack che si incrociano tra loro, lo vedo salire su in cima ad una collinetta e poi sparire inghiottito da un ripido sentiero, finché non lo raggiungo, dall’alto del pendio vedo tutti quelle infinite tracce congiungersi in una rete fittissima per me indistricabile. Arriviamo in un punto dove i numerosi torrenti che scendono per lo scosceso pendio si scavano il proprio letto di torrente stagionale quasi in parallelo agli altri, formando vasti canyon e stretti precipizi che tagliano la scarpata e il sottostante deserto. Questa roccia tenera che si sfalda alza polvere bianca ad ogni nostro passaggio e mostra la parte sottostante, quella più dura e antica appartenente al pleistocene. L’ultimo tratto in vista del Mar Morto è fatto di dirupi quasi verticali che raggiungono un centinaio di metri e più d’altezza, interrotti ogni tanto da questi grandiosi canyon. Ed è lì, sul dorso di una di queste “gobbe di cammello” che la natura appare in tutta la sua magnificenza bella e generosa, maligna e crudele: laggiù la distesa di acqua salata del Mar Morto ed oltre i monti del Moab, scuri e minacciosi, che riparano alle loro spalle la Giordania. Le rocce del paleocene formano una fascia intermedia tra il lato ovest del deserto di Giudea e le colline pedemontane, e ricoprono pure la superficie dell’altopiano di Moab. Questo deserto non ebbe mai, in tempi biblici, abitanti permanenti, inospitale con le sue rocce che si scagliano con abissali strapiombi sul Mar Morto che impediscono il formarsi di lunghe strade, e gole profonde e profonde caverne, luoghi perfetti per la vita eremitica. Questi posti, queste grotte, in questi ultimi anni sono divenuti di una sorprendente attualità perché hanno conservato tesori immensi e manoscritti di inestimabile valore. Riprendiamo la discesa, stordito seguo il mio virgilio costeggiando un piccolo torrente in secca che porta sulla strada asfaltata ed un parcheggio dove ci ristoriamo nel bar gestito da arabi. Danny ci viene incontro con delle bottiglie di acqua ghiacciata, ma il caffè turco è un must da queste parti, ti aiuta ad adeguare la temperatura corporea alle condizioni esterne. Il Mar Morto e Masada Un paio di pedalate e siamo sul Mar Morto, siamo a meno 450 metri sul livello del mare, sì meno! La mia emozione è tale che vorrei fermarmi a fare un tuffo ma fortunatamente Maor mi ferma, “vuoi morire?”, mi dice. Quest’acqua è così salata che non puoi assolutamente immergerti, rischi davvero la vita. Del resto, nelle sue acque non esiste vita. O quasi, pare. Ma fra poco vi racconterò. Pedaliamo in tutta tranquillità sulla pista ciclabile che costeggia il Mar Morto, dieci chilometri di spettacolo: sulla sinistra lo specchio d’acqua, in fondo le montagne giordane e sulla nostra destra le montagne di Giuda che cingono il deserto a sud est. E qui c’è Masada, lassù, in cima ad una roccia apparentemente irraggiungibile: a 400 metri di altezza scavata in questa dura pietra per cui l’unico modo per entrare in questa fortezza era il “sentiero dei serpenti, così chiamato per i numerosi tornanti che lo rendevano un gravissimo ostacolo per la fanteria” (fonte: Wikipedia). La città inespugnabile durante la prima guerra giudaica vide un lungo assedio dell’esercito romano nel 74 d.C. che riuscì a violarne le mura che la cingevano, ma i soldati romani non trovarono alcuna resistenza perché gli assediati misero in atto un’azione rimasta unica nella storia: una orrenda ecatombe, il suicidio collettivo della comunità ebraica che lì viveva. L’ultima comunità ebraica resisteva così senza consegnarsi al potere di Roma. Oggi la frase “Mai più Masada cadrà” è un simbolo della libertà del popolo ebreo. Arriviamo al Crown Plaza Hotel, sulla parte più a sud del Mar Morto, carichiamo le bici sul furgone e scappiamo a farci un bagno in quel mare così inospitale ma altrettanto invitante. C’è una spiaggia, ovviamente la sabbia è stata portata qui, uno stabilimento con accesso libero con docce free. È già tardi, sono circa le 19, ci saranno 23 gradi circa, ma non posso rinunciare ad immergermi. La sensazione è davvero incredibile, la temperatura dell’acqua sarà circa 32 gradi e la cosa più assurda è che galleggi senza alcuno sforzo, addirittura puoi stare seduto, rannicchiato nell’acqua. La sensazione che provi è quella accogliente del ventre materno. Ok, non ricordo come sia, però non penso di andarci lontano così che mi sento come Catullo recitava nelle sue poesie dulces musarum fetus, figlio delle muse. Giusto il tempo però di venirmi in mente di dare due bracciate: pazzo! I pochi schizzi che mi finiscono sugli occhi e sulla bocca mi creano un’irritazione insopportabile, così che devo scappare a farmi la salvifica doccia fredda con un getto opportunamente tanto potente da levare ogni residuo di sale. Ecco, per chiarire: se bevi l’acqua del Mar Morto potresti irritare tanto la laringe da rischiare un soffocamento immediato, e l’elevata salinità può irritare gravemente gli occhi, provocando ustioni irreparabili, tanto da essere assolutamente sconsigliato ai bagnanti immergersi completamente nel Mar Morto. Ma è un’esperienza eccezionale. Restiamo a dormire a Mizpe Ramon, un ex area industriale dove nessun’industria si è però insediata, cosicché i capannoni sono stati adattati a strutture ricettive creando un grande centro turistico nel deserto. Siamo soli, giugno è già troppo caldo perché i turisti si avventurino nel deserto. Direzione deserto del Negev La mattina presto partiamo per Ramon. Ci incamminiamo lungo il bordo del Makhtesh, un cratere lungo 40 km, il più grande del suo genere al mondo. Con Danny ci fermiamo sul belvedere dove la vista è incredibile: si vede chiaramente la circonferenza che descrive il cratere e l’immenso deserto al di sotto. Passiamo un po’ di tempo al bar e io a fare foto, quando incontro un gruppo di giovanissimi militari, tra cui più numerose sono le ragazze: in Israele è obbligatoria la leva militare appena terminata la scuola superiore, sono due anni, e solo due volte al mese nel fine settimana possono tornare a casa. Mi piacerebbe fargli delle foto, ma figurati se me lo consentono, militari: l’IDF, il famoso e temibile esercito israeliano. E invece, invece sono più che felici di farsi fotografare, un diversivo che accettano con allegria. Li lascio provando estrema tenerezza e vicinanza nei loro confronti. Subito dopo imbocchiamo un sentiero favoloso, e una parte è un singletrack a mezzacosta che ci regala scorci da capogiro sullo scenario del cratere, per poi piegarsi verso il basso nel cuore del vulcano. Da qui ci dirigiamo verso est attraverso le pianure desertiche. Il fondo del sentiero è di pietra dura, un’altra cosa rispetto a quello farinoso del deserto della Giudea, e il colore non più giallo, diventa rossastro. Siamo nel deserto del Negev, ora piatto, ora frastagliato, ora bianco ora beige ora nero, residui di lava antica. E poi si aprono gole, canyon, improvvise sorgenti d’acqua e oasi e città nabatee e kibbutz. Da Be’er Sheva, l’antica Bersabea, capitale del Negev, la cui importanza storica risale ai tempi di Abramo, fino a Eilat, è questo il tragitto. Sopra di noi le sagome dei nibbi si stagliano su un cielo blu che fa da contrasto con le arenarie multicolori e le nere rocce laviche, lungo il sentiero invece Moan mi mostra come marcano il territorio le gazzelle e gli asini selvatici, e qui ci son pure i mufloni, che sono il simbolo di questo posto. Qui, in questo scenario, allestiremo il campo per la notte con le tende e le docce calde e, ovviamente, un ricco barbecue. Oggi invece passiamo dal kibbutz in cima alla collina, una pazzesca oasi in mezzo al nulla dove sono stati capaci di portare la vita nel regno della morte: piantagioni di ulivo e pere e albicocche e anche un vigneto da cui ricavano un vino pregiatissimo. E tutto rigorosamente Bio: sono davvero sconvolto dalla capacità di arrangiarsi degli israeliani: “da deserto di spine diventerà giardino di rose, dalla fatica si giungerà alla prosperità” così, riferendosi alla Bibbia, diceva David Ben Gurion nel 1948 quando si insediò come primo rappresentante ufficiale dello Stato di Israele. La parte finale del deserto, quella più meridionale, prende il nome di Eilot, famosa per essere una delle principali tappe delle rotte migratorie di centinaia di specie di volatili: mi racconta Danny che nei due periodi dell’anno delle migrazioni il cielo qui si oscura tanti sono gli uccelli in volo. Rotta per la Giordania L’indomani mattina si va a Eilat, ce la prendiamo comoda, questo posto dove siamo rimasti è uno spettacolo, uno smeraldo nel bel mezzo del nulla: prato inglese, lavanda e alberi di jacaranda, verde intenso e colori passati da un pennello impressionista. Oggi è il giorno del passaggio della frontiera per la Giordania, non vi nascondo che sono un po’ preoccupato. Arriviamo intorno a mezzogiorno, al di là mi aspetta Muhammed, la mia guida giordana. Saluto Danny, ci abbracciamo, è stato davvero un piacevole viaggio con lui. Passo i primi controlli israeliani, niente di che, solo pagare per la tassa del visto in uscita: 30 shekels. Un po’ più complessi quelli giordani, ma anche qui nessun problema, qualche domanda su cosa vengo a fare e con chi sarò e l’immancabile tassa per il visto d’ingresso. Passo il primo, poi il secondo controllo, cammino lungo un corridoio all’aperto, lungo, mi sembra che non finisca mai. Di nuovo al chiuso, finalmente mi raggiunge Muhammed, ha già sbrigato la pratica per me, pagherò poi la tassa d’uscita. In sostanza più soggiorni in Giordania meno pagherai per il visto d’uscita. Muhammed mi porta a fare colazione in un chiosco in spiaggia, sul Mar Rosso, il golfo di Aqaba; c’è molta gente qui al mare, famiglie sotto l’ombrellone, bambini che giocano e corrono nel bagnasciuga, donne immerse in acqua vestite dalla testa ai piedi. Non scatto foto, Muhammed me lo sconsiglia, siamo in territorio arabo, qui è l’islam a dettare legge, e io non posso che adeguarmi. Iniziamo a fare strada subito per Wadi Rum, sono in fibrillazione, già penso a quello che vedrò e da quello che si legge guardandomi intorno in questi primi minuti di viaggio su una fiammante fuoristrada sarà come mi aspettavo. Intanto interrogo il mio compagno di viaggio arabo su cosa ne pensa degli israeliani, lui mi dice che non ha alcun problema, vuole vivere solo in pace. Così lo incalzo, parliamo della Palestina, e mi dice che loro hanno vinto la guerra, ora è finita; ma io insisto chiedo della loro divisione tra sciiti e sunniti, e lui mi dice che è tutta una scusa per odiarsi; ma io voglio sapere di più, così lui inizia a spiegarmi, mi racconta la storia, il significato delle parole, e poi mi dice: “Alesandro, please, this is only politic, let’s do our job, stop it!”. E il deserto della riserva di Wadi Rum Con la nuova 4×4 (appena due giorni di vita) ci addentriamo nel deserto, sono totalmente rapito dal nulla: Wadi Rum assomiglia all’Arizona, ma è sabbia, tutta sabbia e rocce come colline, immense pietre cadute un po’ a caso qua e là a disegnare sentieri, a nascondere villaggi, a riparare animali. Sembra il nulla ma la natura qui è la padrona e l’uomo non fa che assecondarla, come entità suprema, come forza invincibile e divina. Lo dicono le rocce scolpite, modellate dal vento, dall’acqua e dalla sabbia, come “the phoenix”, quella che sembra un’egiziana sfinge ma è solo opera della natura. E quei grandi archi, immensi occhi e orecchie, immensi fori tra dimensioni del niente. Se sei solo, se stai in silenzio, se provi a trattenere il respiro, allora senti, senti com’è pieno questo nulla. Solo qui, in questa solitudine, in questa asprezza, in questa maestosità della natura, un posto dove l’infinito non solo lo percepisci, ma lo cogli nella sua essenza, qui, allora, capisci che l’uomo ha potuto davvero incontrare qualcosa, qualcuno di infinitamente più grande di tutto. Il sole sta calando, io non do tregua a Muhammed che si ferma ad ogni cento metri per permettermi di scattare fotografie, è la golden hour e la luce rende tutto uno spettacolo… divino! Arriviamo al campo tendato che è ormai buio, un accampamento nel mezzo del deserto, al riparo sotto una roccia. Mi hanno riservato una tenda tutta per me, la migliore, la più riparata ma la più lontana dai servizi. Poco male, la lounge, organizzata con tappeti, cuscini e tavoli bassi, è accanto e mi servono un tè fantastico e poi un cous cous proprio come piace a me: pollo, verdure e ceci e una miscela di spezie giordana davvero buona che si chiama zaatar ed è un mix di timo, sommacco, grano tostato, sesamo, olio di oliva, sale: tutto squisito! Vado a dormire presto, Muhammed mi dice che dobbiamo partire alle 7 per avere il tempo di visitare Petra e poi tornare a Aqaba in orario tale da consentirmi di passare la frontiera e poi prendere l’aereo da Eilat per Tel Aviv. Il sogno maestoso che è Petra Alle 8 il disgraziato, disteso all’aperto su un tappeto posato sulla sabbia, ancora ronfava come un orso in letargo. Due ore di viaggio nel corso di cui mi fermo ad una stazione dismessa dove giacciono due spettacolari treni datati: è la linea ferrata su cui viaggiava il treno del Medio Oriente Express, da Istanbul ad Aleppo, ha funzionato in Giordania fino all’anno scorso, ora è una sorta di museo a cielo aperto, abbandonato. E arriviamo a Petra. All’ingresso dell’area archeologica non accettano il mio tesserino da giornalista: 50 diram, 60 euro! Le imprecazioni sono in ebraico, arabo e siciliano. Ma li valgono tutti, li valgono tutti, uno a uno. Inizi a camminare su uno sterrato, la gente locale ti viene incontro con i cavalli, ti chiede se vuoi fare il giro in comodità “al monastero, è lontano, due ore, prendi il cavallo”, e ridi, no no, grazie, vado a piedi. Qui parlano inglese, tutti, pure i bambini. Lo sterrato diventa un ciottolato, il ciottolato diventa un pavimento di romana memoria, si alzano i muri di pietra, iscrizioni in latino sulle pareti, disegni di storie, la storia dei nabatiani, il popolo di guerrieri e commercianti che costruirono questo posto, facendone la loro capitale, ponte dei traffici tra l’oriente e il Mediterraneo. E i muri diventano più alti, il sentiero stretto, è un canyon, entri in un’altra dimensione, ti guardi intorno, in alto, il cielo, l’oscurità, finché, finché in fondo, quel taglio nella montagna non scopre il tesoro, “the Treasury”. Al Khazneh, lo chiamano qui, il maestoso palazzo del faraone. Stai lì senza fiato, lo sapevi, lo immaginavi, ma vedertelo apparire così, d’improvviso, dopo un’ora di camminata sotto il sole cocente, è maledettamente stupendo: arrivi nel piazzale e ti accorgi di quanto sia immensa questa costruzione, la facciata è alta circa cinquanta metri e larga trenta e lo stile ellenistico scolpito nella durissima roccia durante il primo secolo avanti Cristo come tomba per un re nabateo, probabilmente Aretas III, e, secondo alcuni studiosi, usata in seguito come tempio. La mia guida se ne va in uno dei tanti chioschi che affollano il posto dal fondo sabbioso, “quando finisci di fare foto mi trovi lì, seduto” e mi abbandona alla raffica della mia Olympus e alla capacità della memory card. La Sacra Sala, la Strada delle facciate, l’Altura del Sacrificio, il teatro, le tombe reali, la porta di Traiano, il Tempio Grande, la Chiesa di Petra… Sei ore a camminare, ad ammirare sempre più felice di aver messo piede, a piedi, in questo posto fuori dal mondo. Di corsa per l’aeroporto di Eilat. Si torna Ripartiamo di corsa per Aqaba, è tardissimo! Ce l’ho fatta: 18 controlli, sei in Giordania e dodici in Israele da Aqaba fino all’ingresso del gate all’aeroporto di Eilat! Finalmente sono a Tel Aviv, ospite a casa di due gentilissime ragazze israeliane rintracciate attraverso Airbnb. Sono distrutto, ma volete che rinunci a conoscere la vita notturna di Tel Aviv? Giammai! E la capitale sembra la Londra dell’Eastend con i suoi piccoli negozi, i murales e l’aria speziata. E i locali traboccanti di musica e giovani da ogni parte del mondo. L’indomani mattina al bar del Montefiori Hotel cullato dalle note di John Coltrane, bevo il miglior cappuccino mai preso in vita mia e consumato la più salata colazione, nel senso di cara, mai pagata: 120 shekels, 28 euro! Aeroporto Ben Gurion, volo RyanAir da Tel Aviv per Roma, gate 9. Israele e Giordania sono luoghi dell’anima. Non ho potuto attraversarlo tutto in bici per motivi di tempo, ma sono riuscito a “mangiare il loro territorio”. In questo viaggio mi sono sentito in una dimensione che mai avrei immaginato, una dimensione lontana dalla mia cultura, lontanissima, ma spiritualmente così toccante da lasciarmi il segno. Ho scattato non meno di 3000 foto, a Gerusalemme sono rimasto stupito da come nessuno si mostrava minimamente infastidito o turbato dalla mia invadenza, dalla mia sfacciata curiosità, ognuno di loro continuava nella sua preghiera, nella sua cerimonia senza curarsi del resto. In Giordania tutto è più lento, il tempo si ferma, si dilata, le persone seguono il ritmo della natura, la natura sovrasta ogni cosa. E il bambino che vende le pietre. A Petra. Nient’altro che pietre. Nulla, se non il deserto e il desiderio di esserci, di esistere. Il bambino che vende pietre tra le pietre. Ma non ci sono solo immagini salvate in una memory card, ho quelle scolpite nella mia memoria che nessun software di editing può modificare, restano lì, indelebili a mescolarsi con mille e mille altre da sempre e per sempre. Informazioni sul tour Israele e Giordania Coast2Coast, l’agenzia viaggi in bici di Alessandro e Franco Tedesco, organizza questo tour tra Israele e Giordania. Il tour si può effettuare in due parti: Israele: 7 giorni e 6 notti | Data: 27 Ottobre – 2 Novembre 2019 Giordania: 4 giorni e 3 notti | Data: 2-5 Novembre 2019 Contatti eMail: alessandro@coast2coast.it Telefono: +39 328 45 61 237 Web: Coast2Coast.it Voli aerei per e da Tel Aviv Con RyanAir: da Roma Fiumicino Con RyanAir: da Milano Bergamo Con Easy Jet: da Milano Malpensa Alessandro e Franco Tedesco sono anche gli autori del libro Mountain Bike in Sicilia, una raccolta di 53 itinerari da percorrere in mtb per conoscere meglio l’isola. Articolo scritto e foto realizzate per BiciLive.it da: Alessandro Riccardo Tedesco