Guida alle sospensioni della MTB: schemi, tipologie, vantaggi bicilive.it 20 Novembre 2019 Wiki Bike Scrivere di sospensioni nell’epoca che sta vivendo oggi la mountain bike potrebbe sembrare facile: ormai nelle mtb biammortizzate gli schemi posteriori si sono “standardizzati”, la ricerca pionieristica degli anni 90 e 2000 e l’estro sperimentale (che non sempre dava i risultati sperati!) hanno lasciato il posto a un certo “piattume” e le grandi case hanno preferito, vuoi per semplicità progettuale o per motivi economici, affidarsi a pochi e ormai consolidati progetti. Non per questo però sono cambiate le variabili in gioco e l’argomento sospensioni lascia ancora spesso interdetti i biker meno tecnici. Da qui la necessità di fare il punto della situazione “moderna” e riassumere in maniera semplice ma completa quelli che sono i pro e i contro dei più diffusi sistemi di sospensione posteriore. Partiamo però da un paio di presupposti importanti: per quanto ogni casa dichiari la soluzione adottata come “migliore”, forse un vero e proprio “migliore” non esiste, o forse almeno personalmente ritengo che si sia arrivati con quasi tutti i sistemi a degli ottimi risultati, attenuando di molto i difetti che le prime MTB full suspended avevano. Inoltre, l’evoluzione degli elementi elastici (gli ammortizzatori), portati oggi veramente ad alti livelli, ha giocato un ruolo fondamentale e lo gioca anche in fase progettuale ormai, dove probabilmente chi studia un determinato sistema sa che potrà avvalersi di tale tecnologia (se vogliamo, sa già che potrà metterci la cosiddetta “pezza”!). Dal mondo delle sospensioni, che dicevamo aver avuto un periodo davvero tumultuoso, sono completamente spariti i sistemi URT, unified rear triangle, cui comunque accenneremo per spiegare alcuni semplici concetti. Chi vi scrive è sempre stato un grande sperimentatore oltre che appassionato di tecnica MTB, quindi cercherò di restare più neutro possibile anche se indubbiamente traspariranno quelle che sono mie piccole convinzioni maturate in oltre un ventennio di letture, test, confronti ed esperimenti. Bene, è tempo di addentrarci nell’argomento che comunque resterà complesso: tenete d’occhio la terminologia usata e magari prendete carta e penna per divertirvi con un pochino di fisica spiccia. Per i più intraprendenti invece consiglio un programma su tutti per i vostri PC, oltre a quelli di disegno 2D/3D complessi: il famoso “bikechecker” (“linkage”, da cui le immagini di questa guida sono prese) vi potrà far passare ore ed ore davanti al pc esplorando le mille variabili della vostra bici e quella dei vostri amici! Schemi di sospensione nella MTB full suspended: le basi Una sospensione posteriore assicura (o almeno dovrebbe) l’isolamento e lo smorzamento delle sollecitazioni che la ruota posteriore incontra mentre ci troviamo nel normale habitat della mountain bike. Ma oltre a rendere più veloce ed efficace la nostra performance migliora anche la sicurezza, la trazione e la frenata: per questo motivo le sospensioni posteriori ormai sono utilizzate da tutti i produttori e a meno di poche specialità e sentieri ben battuti e “flow”, le full suspended superano le prestazioni delle hard tail alla grande. Il motivo è presto detto: ogni piccola asperità che incontriamo sui trail si traduce in un micro sobbalzo che di fatto “stacca” la ruota da terra, rendendo materialmente impossibile il contatto col suolo. Il compito della sospensione principalmente è quindi di ridurre al minimo questa perdita di contatto ed in secondo luogo assorbire l’energia cinetica che si scaricherebbe su di noi e sulla bici negli atterraggi dai salti (alti o bassi che siano), voluti o non voluti. Allo stesso modo, siamo mediamente sempre più veloci con una biammortizzata rispetto a una hard tail per il fatto che ad ogni piccolo o grande urto “cediamo” energia cinetica e quindi velocità. Se volete sperimentare questa affermazione potete controllare la vostra velocità su un piccolo tratto accidentato che riuscite a percorrere in sicurezza senza frenare. Provate prima con le sospensioni perfettamente tarate e poi invece “dure” (se potete gonfiare o bloccare ammortizzatore e forcella): la differenza sarà lampante. Lo stesso discorso vale in salita: tutti gli urti si ripercuotono su gambe e schiena, perciò tutta fatica in più per i biker senza ammortizzatori che non possono contare nemmeno sul grip in più offerto dalla sospensione posteriore che tiene sempre ben aderente la ruota al terreno. Sento già le voci di chi però obietterà che nelle gare di XC le bici full suspended sono ancora una minoranza e che in effetti il movimento della sospensione durante la pedalata (specialmente in fuorisella) oltre ad infastidire, ruba preziosa energia: vero, verissimo… Ma parliamo di atleti, di chi mediamente ha gambe e schiena in grado di lavorare oltre che come “motore” anche come “sospensione”. La questione è che comunque la sospensione posteriore ruberebbe qualcosa in termini di peso almeno (un chilo in più rispetto alle leggerissime rigide da gara) o in termini energetici. Lascio alla vostra onestà intellettuale e atletica il compito di valutare se siete abbastanza “tenaci” e allenati per una hard tail… e comunque tenete presente il vantaggio offerto in discesa e sullo sconnesso di una full, anche in pianura. A dimostrazione della superiore efficienza delle full in salita comunque si sono svolti nel tempo diversi test scientifici: a parità di frequenza cardiaca e pedalando seduti, una full xc da gara batte la front oppure fa risparmiare energia, utile per scattare o vincere una gara. Un ammortizzatore a molla made in Italy, l’EXT Storia. Noi abbiamo testato lo Storia LOK V3. Gli ammortizzatori Come dicevamo nell’introduzione, un ruolo ormai determinante è lasciato agli ammortizzatori: in questa guida analizziamo il comportamento degli schemi di sospensione meccanici senza però tenere conto appunto degli elementi elastici, anche se, per completezza, vanno citate le caratteristiche intrinseche delle due soluzioni proposte dal mercato, ovvero gli ammortizzatori a molla (ed olio) e gli ammortizzatori ad aria (anche questi con olio). Un ammortizzatore ad aria DVO Topaz. Mediamente, il comportamento degli ammortizzatori a molla è “lineare”, ovvero l’affondamento della sospensione posteriore dovrebbe risultare costante rispetto alle forze applicate, mentre gli ammortizzatori ad aria sono più progressivi, ovvero tendono ad “indurirsi” verso la fine della loro corsa, preservando il telaio dagli urti più forti. Nel tempo questa caratteristica è stata volutamente limitata per migliorarne la sensibilità; infatti il problema degli ammortizzatori ad aria sta nel fatto che gli elementi di tenuta (gli o-ring che mantengono l’aria all’interno dei serbatoi) sono anche gli elementi che dovrebbero assicurare la scorrevolezza del pistone dentro la camera principale. Di fatto quindi, più la pressione è elevata all’interno dell’ammortizzatore, più aumenta la forza sugli o-ring, aumentando l’attrito e riducendo la sensibilità. In più, una camera d’aria singola (si capì fin dai primi ammortizzatori ad aria) rendeva la corsa troppo progressiva e con un carico di stacco spesso esagerato (la soglia di attivazione, la sensibilità), quindi gli ammortizzatori ad aria furono dotati di una camera d’aria negativa (cioè contraria alla forza di estensione) che abbassasse il carico di stacco e lasciasse comunque la progressione finale della camera positiva. Ad oggi inoltre stiamo assistendo alla nascita e sviluppo di nuovi ammortizzatori ad aria con camera positiva maggiorata che permette di abbassare la pressione relativa, oltre a diminuire la pressione esercitata sugli o-ring. Per aumentare o controllare ulteriormente la progressività si possono inserire degli spessori che diminuiscono il volume della camera positiva (questo per controbilanciare eventuali “pecche progettuali” o personalizzare il setting in base al proprio stile di guida). Problemi che invece gli ammortizzatori a molla non conoscono, dato che l’elemento elastico è esterno (la molla) e solo la tenuta idraulica è lasciata agli o-ring (cosa comune anche agli ammortizzatori ad aria). Di contro il peso maggiore dei sistemi a molla limita il loro utilizzo solo alle discipline gravity o dove il peso possa passare in secondo piano. Non è questa la sede per entrare nel merito delle sezioni idrauliche: ogni casa produttrice ha sviluppato il concetto in maniera diversa e ad oggi è lì che si giocano le partite più importanti tra i vari marchi. Un’idraulica raffinata ed efficace può cambiare radicalmente il comportamento di una sospensione, tenetelo presente. Come se non bastasse, la stragrande maggioranza di ammortizzatori ad aria, e piano piano anche quelli a molla, sono stati dotati di appositi comandi per smorzare il loro comportamento elastico e migliorare le prestazioni in salita e pianura, cosa davvero non da poco. Le forze in gioco negli schemi di sospensione della MTB Per capire facilmente il comportamento di una sospensione senza addentrarci troppo in complicate leggi fisiche possiamo ricorrere ad un semplice espediente: una qualsiasi sospensione posteriore è in fin dei conti una leva che insiste su uno o più fulcri (non entriamo ora nel merito). Se riduciamo il tutto per praticità ad un fulcro solo (una sospensione chiamata monoshock), la cosa diventa ancora più chiara. Una MTB Orange biammortizzata con schema monocross. Bene, a un estremità della nostra leva c’è chiaramente il mozzo posteriore con pacco pignoni annesso; l’altra estremità (il nostro fulcro principale) è fissa al telaio e rende possibile il movimento della ruota. Tralasciamo per ora anche il posizionamento dell’ammortizzatore, lo prenderemo in considerazione dopo. Lo schema di un sistema di sospensione monocross. Aggiungiamo ora la catena e il sistema di trasmissione, anche qui, per praticità ridotto a un ormai diffusissimo sistema monocorona con pacco pignoni ad ampia escursione (tipicamente 11-42, anche se chiaramente oggi si arriva anche a 10-52). Le forze che agiscono sulla nostra sospensione per ora saranno essenzialmente due: quella impressa sui pedali dalle nostre gambe, che di fatto “tira” la catena, e le forze che a seguito di un urto o una compressione fanno muovere verso l’alto la nostra ruota, e di conseguenza la nostra leva (il carro posteriore). Se immaginate al posto della catena una corda il discorso può diventare ancora più chiaro. Ecco che dall’equilibrio e la gestione di queste due forze sono nati svariati sistemi di sospensione volti a limitare le reazioni dall’una o dall’altra parte. Agli albori delle sospensioni posteriori nel campo MTB si pose subito l’accento sull’importanza di dove posizionare il fulcro “principale” sul telaio: si chiamavano attive quelle sospensioni che avevano il fulcro sotto o a livello della linea catena (la linea che appunto disegna la catena tra corona anteriore e pignoni posteriori) e passive quelle sospensioni che avevano il fulcro più in alto della linea catena La Specialized Enduro ha un quadrilatero con giunto Horst e una sospensione attiva con fulcro vicino alla corona anteriore. Perché si chiamano così? Ripensiamo alla nostra corda: se il fulcro era sotto o al pari della nostra corda la sospensione tutto sommato era libera di lavorare senza troppe interferenze da parte della corda (catena) per quanto tirassimo forte…al contrario, se il fulcro era posizionato sopra alla linea, la forza di tiro della corda si ripercuoteva sensibilmente sulla sospensione, inibendola (arrivando ad estenderla nonostante gli urti) o innescando fastidiosi fenomeni di rimbalzo (bobbing). Questa caratteristica ha preso il nome di anti-squat, cioè “anti affondamento” e con questo si intende quanto il sistema sospensione sia efficace in salita: a un alto valore di anti-squat (ottenuto in percentuale) corrisponde una sospensione con spiccata tendenza ad “aprirsi” o estendersi in fase di pedalata, il che è una cosa tutto sommato favorevole in salita; l’anti squat combatte il normale affondamento della sospensione sotto il peso del biker e aumenta la trazione sulla gomma (spesso chiamato DIG-IN). Se rovesciamo la lettura del nostro sistema dalla parte della ruota però, e ci immaginiamo con i piedi sui pedali ecco che insorge un altro problema, conosciuto come pedal kickback (o pedal feedback ) ovvero, ricevendo un urto la ruota tira a sua volta la nostra corda-catena all’indietro, rischiando in casi limite di tirare letteralmente indietro la catena e i pedali con essa. Chiaramente la cosa è fastidiosa oltre che assolutamente dispendiosa in termini energetici. Questo fenomeno era particolarmente avvertibile su certe bici a fulcro alto della prima leva e chiaramente era legato all’utilizzo finale del mezzo, fosse esso specificamente progettato per salita o discesa. Per esempio la mitica Sintesi Bromont aveva un forte pedal kickback ma a dispetto di questa fastidiosa particolarità mise a segno diversi colpi importati in gare internazionali. La mitica Sintesi Bromont con fulcro molto alto e quindi sospensione passiva. Nel tempo divenne chiaro che le due forze andavano “dosate”, mediate, in maniera tale da essere sì efficaci in salita ma non penalizzanti in discesa. A favore di questo c’è anche da dire che il tiro catena varia di molto a seconda dei rapporti utilizzati (materialmente cambia il braccio di leva delle forze in ballo) e quindi generalmente il fulcro principale viene collocato in una posizione di compromesso, in modo da avere una discreta percentuale di anti-squat in salita (che solitamente si percorre con rapporti agili) e poco pedal feedback in discesa (dove presumibilmente non pedaleremo o useremo comunque marce lunghe). L’introduzione dei sistemi monocorona ha facilitato la vita ai progettisti e ridotto alcuni problemi che la tripla corona anteriore rendeva lampanti. Come se non bastasse dobbiamo introdurre un’altra forza: quella che esercita la frenata della ruota posteriore sulla nostra leva ( sempre il nostro carro posteriore). Ebbene sì, siamo in un sistema dinamico e per quanto le prime due forze di cui abbiamo parlato possano trovare riscontro in piccoli esperimenti “statici” facilmente replicabili nel nostro garage (se smontate l’ammortizzatore dalla vostra bici e una volta messa su un cavalletto provate a spingere sui pedali o muovere la sospensione posteriore ne scoprirete delle belle!) con il brake-lockout (o brake-jack o più raramente brake- squat misurato con un parametro detto “anti-rise“) la cosa diventa più difficile. C’è chi per valutarne gli effetti fa girare la ruota posteriore (sempre ad ammortizzatore smontato) e poi da una bella pinzata al freno posteriore; chi ha l’accortezza di sistemare con un opportuna fascetta la sospensione in posizione di SAG (la quantità di corsa “negativa” che abitualmente lasciamo sull’ammortizzatore sedendoci in sella, variabile dal 20% al 30% a seconda dello stile di guida), chi (come il sottoscritto) trascina la bici muovendo la sella in alto e in basso con la ruota posteriore frenata, non bloccata, per valutarne un eventuale “indurimento”. Fatto sta che valutare concretamente il brake lockout è difficile. Per quanto “virtualmente” sia un parametro misurabile come gli altri (quindi anche tramite software), nella pratica a volte è davvero difficile rendersene conto. Spesso su sospensioni a corsa lunga e con ammortizzatori di buona qualità il problema è molto mitigato; può diventare fastidioso e anche pericoloso per il telaio stesso in alcune occasioni: ad esempio, se il nostro telaio ne soffre in maniera spiccata, ipotizziamo (anche se è un ipotesi poco probabile) un atterraggio da un salto con la ruota posteriore bloccata: di fatto la sospensione sarà inibita e scaricherà tutto sul biker e sul telaio stesso. Alcuni lamentano ad esempio sulle brake bumps (le buche che si creano prima delle curve in discesa) o sullo scassato che la sospensione posteriore sia pigra, o la bici “scalci” (anche se il ritorno dell’ammo senza frenare è perfetto): ecco, sono questi i sintomi del fastidioso brake jack. Abbiamo una sospensione posteriore pazzesca che però nel momento peggiore ci abbandona e ci troviamo su una front! Solitamente (ad esempio facendo il “giochino” della frenata senza ammo a “banco”) vedremmo la ruota posteriore “decollare” e comprimere lo spazio dedicato all’ammortizzatore. Ho sentito alcuni rider “pro” di discipline gravity consci del problema asserire che la cosa è voluta, per fare in modo che la bici si “abbassi” sul posteriore, senza comprimere troppo la forcella e sbilanciarci in avanti. Tutto molto bello, ma sempre come girare con la sospensione posteriore non al massimo delle proprie caratteristiche. In più, per quanto ci si sia sforzati con soluzioni più o meno complesse, tutti i tipi di sospensione soffrono di questo problema, chi più chi meno. Anche qui, si cerca di mediare: se la bici è stata progettata per uso principalmente discesistico si cercherà di avere il meglio delle performance in quel frangente; viceversa su una “all mountain” (bici polivalente per definizione) si accetteranno dei compromessi. Personalmente ho testato nel tempo svariate decine di sospensioni posteriori, sia dinamicamente che staticamente e per quanto sulla carta anche la soluzione della ormai estinta “barra flottante” abbia dei limiti, nella pratica posso assicurare che è l’unico sistema reale per isolare la frenata dalla sospensione. Si tratta di uno stratagemma meccanico abbastanza semplice; la pinza freno non è montata solidamente sulla nostra leva principale (sempre il nostro carro) ma su una piastra libera di ruotare attorno al mozzo che è vincolata al telaio tramite una barra a sua volta infulcrata su un pivot “libero”. In questo modo, ragionandoci velocemente capirete che la pinza resta libera di muoversi insieme al disco (e alla ruota) nonostante il movimento della sospensione. Peccato che questa soluzione sia stata accantonata in favore di una “semplificazione” delle sospensioni in generale e anche un alleggerimento del telaio delle MTB, anche se in realtà alcune soluzioni sono tuttora davvero complesse. In ultima analisi va citato anche il fatto che nel loro tragitto verso l’alto alcuni carri posteriori si allunghino o accorcino visibilmente, variando le quote geometriche e allungando e accorciando la catena. Le tipologie di sospensioni più diffuse: il monoshock Il monoshock è il sistema di sospensione più semplice a livello costruttivo, citato per spiegarvi i “rudimenti” nel paragrafo precedente. La sua essenza è la praticità di manutenzione (c’è solo un fulcro reale, oltre a quello dove si inserisce l’ammortizzatore), quindi facile da smontare e pulire e facile da realizzare (come nel caso di un forcellone scatolato nella foto qui sotto) per quanto vada saggiamente dimensionato, in quanto anche le forze trasversali (ad esempio in curva) andranno a scaricarsi tutte su un solo snodo. La questione progettuale inoltre non va sottovalutata: a seconda di dove e come verrà posizionato l’ammortizzatore, il carro avrà un comportamento più o meno progressivo o lineare (arrivando anche ad essere anche regressivo). Dato che lo “specchio” di possibilità di tale posizionamento è abbastanza ristretto, molti progetti non sono semplici monoshock ma vengono detti “assistiti”, cioè, l’ammortizzatore viene compresso tramite un sistema di bielle e leveraggi in maniera tale da ottenere la curva di progressione desiderata. Sono questi i casi dei sistemi ad esempio di Evil, Kona e Scott. Questi ultimi sistemi potrebbero trarre facilmente in inganno, assomigliando molto a soluzioni a quadrilatero che vedremo in seguito. Fate attenzione e guardate prima di tutto “cosa collega cosa”, cioè se il mozzo posteriore è collegato direttamente (senza snodi quindi) al fulcro principale sul telaio. Una prima versione della Scott Gambler da DH con sistema monocross assistito. La semplicità del progetto permette anche di concentrarsi su dove piazzare il fulcro principale in maniera tale da decidere quanto anti-squat si voglia raggiungere (e quanto pedal feedback sia tollerabile). Ma attenzione, ecco l’uovo di Colombo. Con (mio) grande piacere, ultimamente stiamo assistendo ad un ritorno dei monoshock a fulcro alto, che a rigor di logica dovrebbero essere molto più efficaci sugli urti (che provengono frontalmente, non dal basso) ma soffrire di grande pedal-feedback: ebbene ecco che molti costruttori sono ricorsi ad un pignoncino di rinvio vicino o concentrico al fulcro principale dirottando la forza di tiro catena dove desiderato, come se in realtà il movimento centrale fosse dove desiderato e creando una “nuova” linea catena. La risposta in frenata di questi sistemi è sempre penalizzante… a meno che non ci sia la famosa barra flottante. Il movimento nello spazio della ruota posteriore (axle path, ovvero percorso ruota) descrive un arco semplice. L’azienda di Andorra Commencal sfrutta una puleggia per alzare la linea della catena. Quadrilateri con giunto Horst Horst Leitner (il nome di chi per primo “ufficialmente” brevettò lo snodo di cui parliamo) ebbe un colpo di genio, che per almeno un ventennio stabilì uno standard di riferimento nel mondo delle sospensioni. La trovata consisteva nell’inserire uno snodo (pivot) sui foderi bassi di un normale sistema a quadrilatero “svincolando” (sulla carta!) l’influenza della frenata dal comportamento del tiro catena. Non era cosa da poco, ed infatti Specialized acquistò il brevetto e diede vita al tipico schema FSR che ancora oggi è adottato sulle loro biciclette (ma il brevetto ora è stato esteso anche ad altre aziende). La eMTB Specialized Turbo Kenevo 2020 utilizza sempre un sistema a quadrilatero con giunto Horst. In pratica il sistema si comportava come un monoshock assistito CON una barra flottante incorporata, perché la pinza freno infatti era svincolata dal movimento del braccio principale (i foderi bassi). C’è un però: la perfetta riuscita di un carro con giunto Horst è un’arte, infatti non basta inserire questo fulcro per assicurare reale indipendenza alla frenata; in più a seconda della distanza dal mozzo avrà grandi ripercussioni sul comportamento in pedalata e sulla progressività o meno della sospensione. Visualizzare il percorso ruota di questi sistemi può non essere così intuitivo, dato che non si muovono su un arco semplice ma su un parallelogramma, e quindi sarà sempre simile ad un arco che può essere molto “aperto” (quasi lineare) o vagamente ad “S” avendo benefici risultati sulla pedalata e sull’allungamento della catena. Per visualizzarlo (oltre che ricorrere facilmente ai software esistenti) dobbiamo tirare in ballo il centro di curvatura (CC-Curvature Center), una misura matematica che determina il reale centro di movimento della sospensione che sarà la somma di tante piccole porzioni di arco: è il fulcro “virtuale” da cui a volte tutti i sistemi non monoshock prendono il nome (virtual point pivot, anche se ora questo acronimo descrive un sistema di sospensione a parte che tratteremo in seguito). A questo punto possiamo parlare dell’importanza di un altro punto usato per calcolare “a tavolino” il comportamento in pedalata e frenata delle nostre bici, ovvero l’Instant Center (IC, centro istantaneo di rotazione): lo possiamo individuare semplicemente, tracciando una retta passante tra il giunto horst e il fulcro sul telaio e un’altra retta passante tra gli snodi superiori del carro (escludendo quello dove viene infulcrato l’ammortizzatore). È istantaneo cioè un “rappresenta un solo momento” perché è chiaro che si muoverà sempre a seconda dell’affondamento della sospensione. La forza del sistema Horst sta nella sua media efficacia, ovvero, un tiro catena modesto o comunque controllabile a seconda del progetto, senza contare che ormai volenti o nolenti è il sistema più diffuso e collaudato. Tenete d’occhio i cuscinetti, sono tanti. Floating point pivot Se idealmente (o ancora una volta col nostro software di simulazione) spostassimo verso il movimento centrale il fatidico giunto Horst ci troveremmo nella particolare situazione di avere un carro posteriore costituito da un triangolo rigido a tutti gli effetti, vincolato da una piccola bielletta al telaio nella zona inferiore e da un sistema più o meno complesso di rinvio all’ammortizzatore a livello superiore. Tutto qui? Beh, no… perché questa è la base del sistema, dato che poi i VPP si sono evoluti in maniera completamente autonoma prendendo mille strade differenti e quindi diramandosi in svariate tipologie, un esempio su tutti per essere chiari? L’ultima evoluzione del sistema Yeti. Il sistema Switch Infinity di Yeti con il triangolo posteriore in un solo pezzo che “fluttua” utilizzando due piccoli ammortizzatori. Addirittura il movimento del fulcro principale è guidato da due “binari” realizzati esattamente come piccoli ammortizzatori (non a caso prodotti in collaborazione con FOX), mentre l’ammortizzatore è servito da una biella che comunque vincola anche superiormente il carro. Oppure il sistema della Canfield Brothers JEDI. La Canfield nella foto sfrutta il sistema del Floating Pivot Point. Apparentemente complesso da sembrare una ragnatela di pivot e braccetti, ma la sua efficacia è davvero di primo ordine. Per quanto la storia se lo possa essere dimenticato, probabilmente questo sistema ha origini nostrane: Edo Ferrari con le sue Sintesi Bazooka sono stati davvero avanti, per quanto in America ci fossero parallelamente sicuramente sperimentazioni in tale senso. Questi sistemi a seconda del progetto possono essere adatti alla pedalata o super efficaci in discesa, ma mediamente soffrono sempre di brake jack… Mentre grazie a un’attenta progettazione, il controllo della traiettoria ruota può essere curato fino all’ultimo millimetro. La Sintesi Bazooka era molto avanti per i suoi tempi. Altri sistemi di sospensioni Per quanto lentamente anche gli ultimi baluardi di “intraprendenza cinematica” stiano sparendo, a dovere di cronaca sento doveroso segnalare alcune soluzioni davvero particolari che nel tempo si erano proposte di migliorare o addirittura risolvere i già visti problemi delle sospensioni. Una MTB con carro URT, dove il movimento centrale è unificato al carro, sistema esente quindi dal tiro catena. Come non partire dai sistemi URT (unified rear triangle) dove il movimento centrale era inglobato nel carro posteriore ammortizzato e non montato sul telaio. Questi sistemi sono oggi completamente spariti e avevano come peculiarità il fatto di “funzionare” solo con il biker in sella. Quando ci si alzava sui pedali, di fatto, il peso gravava unicamente sul carro posteriore, isolando quasi del tutto la sospensione. E comunque erano completamente esenti dell’influenza del tiro catena… Passiamo poi al mitico “I-drive” di GT, che inizialmente ibridava una normale soluzione monoshock con un sistema URT, grazie ad un eccentrico nel quale il movimento centrale ruotava libero, vincolato al telaio solo da un “dog-bone” di solido alluminio Una delle prime interpretazioni del sistema I-Drive di GT con carro URT. Il sistema poi subì lente semplificazioni fino a diventare di fatto il sistema “GI” visto su Mongoose nella sua ultima evoluzione, prima ahimè di sparire. Sistema simile a livello concettuale fu usato dalla nostrana Sintesi sulla particolarissima Rumba. La Rumba è una bici che forse non ebbe il successo che avrebbe meritato, in parte a causa del numero elevato di cuscinetti e parti in movimento. Ma qui addirittura il peso del biker variava la progressività del carro, oltre al comportamento dei leveraggi… Geniale! Oppure ancora “l’ibrido” horst-quadrilatero dello ABP (active braking pivot) usato da Trek e altre aziende che utilizzano lo Split Pivot di Dave Weagle, sistema che sulla carta dovrebbe avere il meglio dei due sistemi… Lo Split Pivot di Dave Weagle usato da aziende come Trek, Devinci e BH. Nel mondo delle sospensioni come in tanti altri settori, i produttori hanno cercato comunque nel tempo di rendere originali i loro sistemi, tra brevetti e idee più o meno valide…da qui sono nate tante “sfumature” di sistemi semplici oppure “imitazioni” che poi sono finite in tribunale. Non mi dilungo, ma se cercate sul web ne troverete sicuramente traccia. Sistemi di sospensione nelle mtb: conclusioni Riducete sempre il tutto ai minimi termini, pensate a “cosa” collega “cosa” e vedrete che bene o male riconoscerete una tipologia di sospensione che abbiamo trattato. Vi lascio con qualche riflessione spicciola: a oggi non saprei decretare “il miglior sistema di sospensione esistente”. Come abbiamo visto, tutti hanno pro e contro, anche solo per quel che riguarda la semplice manutenzione. Se vi imbattete in un sistema di sospensione che apparentemente non riconoscete, ragionateci su: vedrete che per forza di cose apparterrà ad una delle categorie che abbiamo visto. Una sospensione posteriore “progettata male” può essere trasformata radicalmente e migliorata grazie a un ottimo ammortizzatore. Purtroppo il contrario è più difficile. Buone pedalate! Articolo realizzato per BiciLive.it da: Fil Palmer Fil Palmer: Mi vietarono il motorino a 14 anni ma mi diedero lo stesso budget per la bici, quindi pochi anni dopo ero in sella alle prime full circolanti in Italia. Da lì la malattia e la passione per la tecnica e la fisica della Mountain bike. E da qualche anno ebike dipendente!